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B E N V E N U T O !! Lo Spirito Santo illumini la tua mente, fortifichi la tua fede.


venerdì 26 giugno 2015

«Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?».


Domenica tredicesima del tempo ordinario Anno B – 28 giugno 2015

Gesù è Maestro:ci dà tempo per capire, sa che i nostri tempi non sono quelli di Dio: Lui ha seminato la Parola del Padre, sta a noi farla nostra, seguirlo con fede, con quella fede che anche se poca, ma che non ha paura.

Dal vangelo secondo Marco 5,21-43

“Essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno
molta folla ed egli stava lungo il mare.
E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva».
Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.

Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello.
Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata».
E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male. 

E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?».
I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”».
Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo.
E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità.
Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?».
Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!».
E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.
Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte.
Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme».
E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina.
Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!».
E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore.
E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare”.

Parola del Signore!


Enzo: Nel commento al vangelo di domenica scorsa ho citato questi due miracoli di Gesù rilevando l’importanza della fede nella vita di chi vuole seguire Gesù, nostro Maestro. Abbiamo riflettuto su una fede senza condizioni, una fede che ha la certezza delle premure di Gesù, di una fede matura che nasce dall’ascolto della Parola.


Approfondiamo i due miracoli che la liturgia ci propone per domenica prossima 28 giugno.

Una donna impura , “impura” così la legge la dichiarava perché aveva perdite di sangue, e impuro diventava tutto ciò che essa toccava sempre secondo la legge. Questa donna di nascosto tocca la veste di Gesù e alle parole di Gesù «Chi ha toccato le mie vesti?», si sente colpevole, paurosa , tremante , si vede scoperta. Poverina! Per lei bastava soltanto toccare le vesti di Gesù per essere guarita. Non voleva attenzioni, solo guarire dopo tanta sofferenza e aver speso tutto quello che possedeva per i medici senza aver avuto alcun vantaggio.


I discepoli di Gesù lo prendono in giro :  «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Ma Gesù vede oltre e sente i gemiti e la sofferenza della donna che ha trasgredito una legge di Mosè, la guarisce e dà contemporaneamente una lezione teologica per chi vuole vedere nei fatti la manifestazione di Dio: Dio non bada al puro o all’impuro ma alla fede, e quella donna ne aveva tanta!

La fede è una predisposizione necessaria per vedere da vicino la profonda realtà salvifica che lo straordinario di Dio, il miracolo simboleggia. A Gesù si arriva mediante la fede: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male». La fede porta salvezza al corpo e pace all’anima.


"La tua figlia è morta" e  passiamo al secondo miracolo: questa notizia portata da messaggeri della casa del capo della sinagoga, solleva la questione della fede di Giairo non soltanto nella potenza risanatrice di Gesù , ma nel suo potere di risuscitare i morti. I soliti criticoni e diffidenti del momento. E’ tutto finito! Ma il Maestro che legge nei cuori sollecita la fede tentennante: «Non temere, soltanto abbi fede!». Soltanto abbi fede!


Queste poche parole suonano come un avvertimento per i presenti e un incoraggiamento per Giairo.

Egli pur essendo un ebreo capo, non ha esitato davanti alla sofferenza della figlia andare da Gesù, di cui si parlava tanto, gettandosi ai suoi piedi supplicando per chiedere la guarigione della figlia. Non teme la gente, non gli importa che altri lo critichino, crede al potere taumaturgico di Gesù: “vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva”. A tutti noi una lezione contro le omissioni quando temiamo la gente che ci osserva.


Il fatto è semplice: Gesù va, lascia alle spalle la curiosità e le cattive lingue della gente che lo seguiva e dei parenti della ragazza: con sé soltanto Pietro, Giacomo e Giovanni,  il padre e la madre della bambina, unici testimoni della risurrezione-sveglia dal sonno…L’accaduto come sempre arreca stupore, ma non comprensione. 


“Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!».

E subito la fanciulla si alzò e camminava. Semplici parole per descrivere un grandissimo evento e di grande significato.


La forza della fede in Gesù supera il potere della morte, intesa nel senso di separazione da Dio, che comporta l’esclusione dalla vita eterna.

Gesù impone il silenzio dopo un miracolo così clamoroso. Lo farà altre volte. Non è una pretesa per mantenere all’oscuro la gente “schiacciata” da lui, ma  vuole evitare il fraintendimento, forse anche l’euforia della gente. Nemmeno i discepoli presenti al miracolo avevano capito il senso teologico del prodigio. Lo capiranno nell’evento pasquale, quando attraverso la passione e risurrezione di Gesù si sarebbe manifestata pienamente la potenza di Dio sulla morte.


Anche in questo Gesù è Maestro:ci dà tempo per capire, sa che i nostri tempi non sono quelli di Dio: Lui ha seminato la Parola del Padre, sta a noi farla nostra, seguirlo con fede, con quella fede che anche se poca, ma che non ha paura. Ce lo dice lui stesso ad ognuno di noi come al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!».


San Giovanni Crisostomo, IV secolo, commentando questo brano tra l’altro dice:

Insegna, inoltre, a non temere la morte: essa infatti non è più morte, ma è diventata sonno. Cristo, infatti, doveva di lì a poco morire, e voleva perciò preparare i discepoli, nella persona di altri, ad aver coraggio e a sopportare pazientemente la sua morte. Da quando egli è venuto sulla terra, la morte è divenuta soltanto un sonno...”


E san Pietro Crisologo, fine IV secolo

“La donna toccò il mantello di Gesù e fu guarita, fu liberata dal suo male. Noi invece tocchiamo e riceviamo ogni giorno il corpo del Signore, ma le nostre ferite non guariscono. Se siamo deboli, non dobbiamo attribuirlo al Cristo, ma alla nostra mancanza di fede. Se infatti un giorno, passando per la strada, egli restituì la salute a una donna che si nascondeva, è evidente che oggi, dimorando in noi, egli può guarire le nostre ferite» (S. Pietro Crisologo, Sermone 33)


Mariella: Nella tredicesima domenica del tempo ordinario la liturgia ci fa gustare un bellissimo brano di Marco che ha come tema principale la fede in tutta la sua intensità, presentata a noi con due miracoli, quello dell'emorroissa la cui fede in Cristo non l'ha solo "guarita", ma l'ha "salvata"; liberandola dalla sofferenza nella quale viveva da 12 anni e restituendole la pace del cuore.

 "Va' in pace"  così infatti la congeda Gesù dopo averla guarita, facendole compiere quel passo avanti che va oltre la guarigione fisica, Lui le dona la salvezza, ossia le fa percorrere un cammino da una fede  "primitiva", alla fede piena e le apre nuovi orizzonti che si affacciano sulla vita eterna.
Così, nell'incontro con il Maestro, ella passa dalla paura alla fiducia, dalla mentalità che cerca la guarigione alla fede che salva.

A Giairo, che osa fare un passo coraggioso, gettarsi ai piedi del Maestro e supplicarlo con insistenza, mettendosi perfino in ridicolo di fronte alla folla che lo deride, Gesù gli chiede di continuare ad aver fede.   “La bambina non è morta ma dorme” questa è la cosa più difficile da credere, qui siamo al culmine di un itinerario di fede, credere che la morte è vinta, credere che il nostro Dio è Dio dei vivi e non dei morti.  


 Anche oggi fra i cristiani c'è un certo scetticismo quando si parla di risurrezione, eppure senza una continuazione di vita nell'aldilà, nulla avrebbe senso e nulla potrebbe "essere salvato".  Dovremmo tutti avere la fiducia e umiltà della donna del Vangelo, il coraggio e la convinzione di Giairo, per poter diventare portatori di speranza, ma molte volte siamo talmente presi dal nostro io limitato e pessimista.

 Anche a noi oggi il Signore dice: “non temere, abbi soltanto fede!” la morte non avrà mai l'ultima parola! La fede in Gesù e nella sua Parola, è l'ingresso in una vita nuova, che non avrà mai fine

.
Al mio breve commento unisco  due inserti di in commento di Padre Augusto Drago, che ci aiuta e comprendere meglio l'insegnamento che vuole darci Gesù.


La donna con perdite di sangue:
Gesto umile, semplice fatto anche di incognite: sarà possibile che toccare il mantello di Gesù arrivi a far sentire la sua presenza? Sì, sarà possibile: proprio a motivo del suo umile gesto, ultima risorsa che le era rimasta. Toccare è credere che Gesù tutto vede e sente della nostra povera umanità.
Di fatti Gesù sente come un fremito attraversargli il cuore, si volta e senza indugio dice alla donna: "La tua fede ti ha salvata”
Ecco: la fede non è poi così difficile o complicata, non esige grandi opere o grandi fatiche.
Basta il gesto semplice e coraggioso. Basta la fatica di farsi largo tra la ressa per giungere vicino a Lui. La gente, essa stessa è anonima, senza volto. Tante persone girano attorno a Gesù, tante persone gli stanno accanto, ma non lo toccano né si lasciano toccare.
Per essere guariti, per guadagnare la nostra Vita occorre la semplicità del "toccare" e la gioia di essere toccati da Gesù.


La figlia del capo della sinagoga:
Gesù prese la mano della bambina! Prendere la mano è il gesto simbolico di chi afferra qualcuno per trarlo da un pericolo, da una situazione pericolosa. Gesù compie il gesto per liberare la fanciulla dai lacci della morte. Tenerezza di Gesù, tenerezza anche del Padre.

Se qui il verbo toccare è il verbo della fede e di ciò che la fede dona, allora dobbiamo considerare un altro fatto importante:

Dio Padre, mandando suo Figlio nella nostra carne mortale, non viene forse a toccarci da vicino? Non viene a toccare le nostre infermità? Non viene a mettere la mano là dove più purulenta è la nostra piaga? L'Incarnazione del Verbo è il più grande atto di tenerezza del Padre verso di noi. Egli, il Padre, per mezzo dell'Umanità del Figlio, ci ripete: Talità kum !Riprendi a camminare, riprendi la vita! Questo compie la tenerezza e la bontà del Dio che amiamo, del Dio nostro


Nota: Per chi lo volesse può leggere il commento completo  nella pagina di Padre Augusto Drago

giovedì 18 giugno 2015

Nel dolore e nella gioia, Signore, resta sempre con noi!


 
Domenica dodicesima del tempo ordinario. Anno B – 21 giugno 2015



Dal vangelo secondo Marco 4,35-41

In quel medesimo giorno, venuta la sera, disse loro: «Passiamo all’altra
riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui.
Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena.
Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».
Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia.
Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro:
«Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

Parola del Signore!

Enzo: Dopo il discorso in parabole l’evangelista Marco parla di quattro miracoli compiuti da Gesù. Sappiamo che Gesù si rivela mediante le “parole” e le “opere”. I miracoli riportati da Marco subito dopo il discorso intorno al mistero del Regno potrebbero essere una conferma del discorso stesso, una garanzia alle parole di Gesù. Ma forse sono qualcosa di più, una rivelazione che ci manifestano, prolungando il discorso, alcune caratteristiche del Regno.

Oltre che una accentuata dimensione cristologica possiamo avvertire un intento ecclesiologico nel racconto. Il biasimo di Gesù per la mancanza di fede nei suoi discepoli imbarcati con lui è indirizzato da Marco ai cristiani della sua comunità, ai capi della comunità, intiepiditi nel loro amore a Cristo rispetto al fervore primitivo. E direi che lo stesso biasimo potrebbe essere rivolto a noi, Chiesa del ventunesimo secolo, vescovi, sacerdoti, religiosi e noi laici che poco conto abbiamo ancora nelle chiese di paese e di quartiere…
I miracoli nel vangelo di Marco sono una garanzia al servizio della fede, che vanno letti alla luce della fede.
«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». I miracoli ci avvertono che si può essere uomini di poca fede in due modi: c’è la poca fede di chi non ha il coraggio di lasciare tutto per il Maestro, e ancora la poca fede di chi, avendo lasciato tutto, pretende però (nei momenti difficili) una presenza chiara del Signore che consola, una fede accompagnata da continue verifiche.
Ancora una fede immatura che confonde il silenzio di Dio con la sua assenza, il permanere del male con la sconfitta del Regno. La fede matura sa rendere tranquilli anche nelle difficoltà e sereni anche nella persecuzione: la comunità, simboleggiata dalla barca, poteva contare con piena fiducia sul soccorso di Gesù  nei momenti difficili e burrascosi, ma la paura ha il sopravvento.
In questo brano l’attenzione non è più rivolta alla potenza di Gesù («Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?»,ma alla fede dei discepoli «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Non avevano capito nulla.

Nel brano che segue, la guarigione di un indemoniato, assistiamo alla presenza del guarito che vuole seguire Gesù. Non gli fu permesso di rimanere con Gesù ma fu inviato ad annunciare ciò che il Signore ha fatto e la misericordia che gli era stata usata.
Una fede senza condizioni: “ Egli se ne andò e si mise a proclamare per la Decapoli quello che Gesù aveva fatto per lui e tutti ne erano meravigliati” Mc 5,18.20.

Successivamente una donna è guarita a causa della sua fede: “Se riuscirò solo a toccare le sue vesti, sarò salvata”. Non chiede, ha la certezza delle premure di Gesù.

Il capo della sinagoga supplica Gesù insistentemente il Maestro: “La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché  sia salvata e viva”. Gesù risuscita la figlia che trova morta.
Una fede insistente di un ebreo che soltanto aveva sentito parlare di Gesù e delle sue opere. Fede e preghiera ci mostrano una fede matura. Non una pretesa dunque di avere costantemente una presenza divina nelle difficoltà. Una fede molto lontana da quelle parole dei discepoli:  «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».

Anche noi crediamo che Dio possa dimenticarsi di noi nei momenti difficili della vita? Non pensiamo che forse la nostra fede ha bisogno di una spinta dello Spirito Santo?

Mariella: Il brano che la liturgia c'invita a meditare è quello che si riferisce al miracolo della tempesta sedata. Il centro di tutto il brano non è tanto il racconto in sé, quanto piuttosto la domanda finale: “Chi è costui?” domanda che, come ha già sottolineato Enzo è da leggersi in chiave di fede, ossia: chi è Gesù Cristo per me e per il mondo che mi circonda? Dietro chi sto andando? Quali sono le prospettive future che si aprono ai miei occhi alla luce dei suoi insegnamenti? Cosa ci aspettiamo da Lui: la soluzione ai nostri problemi? Ci aspettiamo forse una vita facile e scorrevole?
 Probabilmente questo si aspettavano gli Apostoli che, vedendolo dormire, non volevano accettare di essere lasciati in balia delle onde: “Maestro, non ti importa che siamo perduti?” In loro subentra un senso di paura che allontana la fede.
Fondamentalmente Gesù per noi è l'eterno assente nel momento del bisogno, fa silenzio quando vorremmo sentirlo parlare, non ascolta il nostro grido quando gradiremmo che il dolore e la sofferenza non scombussolassero la nostra esistenza. L'immagine che ci siamo creati di Gesù Cristo è quella di un Dio che ci deve risolvere tutti i problemi, tirar fuori da tutti i guai e soddisfare ogni esigenza. Appena qualcosa s'incrina nella nostra vita, ecco che mettiamo in discussione la sua Potenza ed il suo Amore.
Nella vita ci possono essere momenti in cui, a causa di una delusione negli affetti, negli affari o nella carriera, temiamo di essere inghiottiti dal vuoto e ci sembra che ogni luce si spenga, ogni varco si chiuda e ogni forza si esaurisca, perché Dio se ne è andato.
Anche le preghiere molto spesso sono finalizzate ad ottenere il meglio per noi. Perfino le offerte possono assumere l'espressione ricattatoria...diamo per ottenere...ma se non otteniamo Dio non esiste...la nostra fede crolla.
Mentre invece la preghiera, sostenuta da una fede vera, deve avere in sé la forza di risvegliare la Potenza di Dio, deve essere una preghiera fiduciosa, instancabile, ma al tempo stesso umile, abbandonata alla Sua volontà e non condizionata dalla nostra necessità
Signore rendi salda la nostra fede, perché non ci esaltiamo nel successo e non ci abbattiamo nelle tempeste della vita, ma in ogni evento riconosciamo che Tu sei presente e ci accompagni lungo il cammino della storia!

“Vi parlo, con l'aiuto di Dio, della lettura appena terminata del santo evangelo, per esortarvi affinché non dorma la fede nei vostri cuori all'infuriare delle tempeste e dei marosi di questo mondo. Non sembrerebbe certo che Cristo Signore avesse la morte e il sonno in suo potere, se il sonno si impadronì dell'Onnipotente mentre era sulla barca in alto mare. Se credete questo, la fede dorme in voi: ma se in voi veglia Cristo, la vostra fede è desta. L'Apostolo dice: «Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori» (Ef 3,17). (Sant’Agostino)


giovedì 11 giugno 2015

L’uomo getta il seme e dorme; il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa.

Domenica undicesima del tempo ordinario Anno B- 14 giugno   2015

Dal Vangelo secondo Marco 4,26-34

In quel tempo Gesù diceva alla folla: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa.
Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga;
e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».

Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? 

È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

Parola del Signore!

Enzo: Due parabole che parlano del Regno di Dio. Nella prima, riportata solo da Marco, Gesù parla della semina, trascura volutamente tutto il lavoro del contadino che segue alla semina; non accenna nemmeno alla avversità del maltempo, alla eventuale siccità. L’uomo getta il seme sul terreno. Il seme segue il suo percorso biologico, germoglia e cresce anche quando chi ha seminato dorma o vegli, di notte o di giorno ignorando come il seme che ha gettato nel terreno possa germogliare e crescere.
Il Regno di Dio è simile a quel seme che germoglia e cresce spontaneamente fino a produrre il frutto, in questo caso la spiga di grano… Così il Regno cresce  attraverso la semina della parola divina: non sono gli uomini, discepoli di Gesù, che danno la forza alla parola, il Regno cresce comunque e produrrà anch’esso inevitabilmente un raccolto.

Il discepolo di Gesù è chiamato a spargere la Parola con serenità senza ansia nell’aspettare il raccolto. La mietitura , il raccolto , il compimento del Regno di Dio verrà sicuramente perché è giunto potentemente nel mondo col ministero di Gesù.

La seconda parabola ci mostra il contrasto e la continuità  tra l’umiltà del  seme, punto di partenza, e la grandezza inaspettata dell’albero, punto di arrivo. Come l’albero nasce da un piccolissimo seme così il Regno di Dio è già presente nella vita e nella predicazione di Gesù prima, e dopo nella vita e nella predicazione della comunità cristiana .
La parabola ci insegna che l’umiltà, la piccolezza forse insignificante degli inizi, non deve essere motivo  di trascuratezza e di rifiuto. Bisogna prendere sul serio tutte le occasioni che, spesso anche se piccole,nascondono la presenza del Regno.

Ricordiamo le parole dell’apostolo Paolo: “ Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere. Ora né chi pianta, né chi irrìga è qualche cosa, ma Dio che fa crescere. Non c'è differenza tra chi pianta e chi irrìga, ma ciascuno riceverà la sua mercede secondo il proprio lavoro. Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete il campo di Dio, l'edificio di Dio”. (1Cor 3,6-9)

Bello il finale: quel grandioso albero “fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra”. Il regno di Dio avrà uno sviluppo progressivo come appare dalla crescita grandiosa della pianta di senape che diventa rifugio per gli uccelli del cielo.
Il regno di Dio non va identificato con la Chiesa, ma nella lettura post pasquale della similitudine si allude alla crescita della comunità cristiana quale manifestazione iniziale del regno di Dio, che grazie all’attività missionaria della Chiesa continuava ad espandersi tra i gentili.

 Ascoltiamo questi commenti di due padri e dottori della Chiesa, San Gregorio Magno e san Pietro Crisologo:

“L’uomo getta il seme nella terra e, dopo averlo gettato, dorme perché riposa nella speranza. Il seme germoglia e cresce. La terra fruttifica da sé perché prevenuta dalla grazia e produce la spiga e poi il chicco pieno nella spiga. Così l’anima dell’uomo spontaneamente produce il suo frutto, cioè la virtù che matura nella bontà” (San Gregorio Magno, Omelie)

“quando concepiamo un buon desiderio, gettiamo il seme; quando cominciamo a far bene, siamo erba, quando l`opera buona avanza, siamo spiga e quando ci consolidiamo nella perfezione, siamo grano pieno nella spiga…”  (Gregorio Magno, In Exod)

“Seminiamo questo grano di senape nel nostro cuore in modo che si innalzi verso il cielo e si diffonda nei rami della sapienza divina e ci attiri con il sapore del suo frutto; e il gusto di questo albero ci tolga internamente la vergogna dell’ignoranza...

Simile a un grano di senape è il regno di Dio… Il regno è Cristo che, come un grano di senape, è cresciuto in tutto il mondo nell’albero della croce e quando veniva triturato dalla sua passione ha emesso un così mirabile frutto da attirare a sé tutto ciò che ha vita: è diventato tutto per rinnovare in sé tutti. Cristo ha ricevuto il grano di senape, cioè il regno di Dio e lo ha seminato nel suo giardino".
 (Pietro Crisologo, Sermoni)


Mariella: La pagina di Vangelo letta ci porta nel cuore del Regno di Dio per una sempre più piena maturità della fede cristiana. Prima di tutto lascio la parola a Padre Augusto Drago che ci aiuterà a comprendere alcune cose fondamentali:

Padre Augusto Drago: Il regno è opera di Dio. All'uomo spetta la preparazione del terreno e la semina, Dio fa il resto 
Il regno c'è, e sta sviluppandosi, sovente di nascosto, lungo tutta la storia umana, perché dipende da Dio e non da noi. Se dipendesse da noi non sarebbe di certo sopravvissuto, ma la grazia del Signore lo fa crescere dove, come e quanto vuole.

Il regno nasce dalla Parola di Dio che viene seminata nel cuore di ogni uomo. Il seme della Parola quando viene sparso è invisibile, dopo che cade a terra si confonde addirittura con la stessa terra. Ma poi una volta che comincia a germogliare e a crescere, diviene un grande arbusto.
Ad ogni seminatore deve importare una cosa sola: seminare il buon seme della Parola. Fatto questo, è la Parola stessa che porta in sé il germe della vita nuova.

Quando essa è nel cuore dell'uomo, attraverso un altro grande mistero che è quello della
grazia e dello Spirito Santo, il seme inizia pian piano a germogliare, crescere e fruttificare. La fecondità dei frutti è misteriosamente nascosta e la si può solo vedere con gli occhi della fede.
Tutta la nostra attenzione deve essere rivolta alla necessità che il buon seme della Parola di Dio venga sparso nei cuori, questa attenzione deve essere massima!

Ultima cosa: Tra la semina e la maturazione il tempo è necessario, l'impazienza spesso non ci consente di attendere che il seme germogli e cresca, niente è più necessario della pazienza per far fruttificare la Parola. Il seme ha i suoi tempi e noi dobbiamo rispettarli, nel frattempo dobbiamo continuare a seminare.

Mentre un seme germoglia, altri semi vengono gettati nei cuori e così all'infinito. Dio infatti, vede il nostro tempo in chiave di eternità e lo scandisce secondo un suo piano, che alla sola ragione umana appare incomprensibile..

I fasti e le glorie dei regni umani hanno le loro storie e rivelano la loro caducità. Il regno di Dio, proprio perché silenzioso e umile, piccolo e nascosto, si rivela infine in tutta la sua grandiosità con i prodigi che opera nella nostra storia

E allora chiediamoci:
Cosa si semina oggi: parola di Dio o parola d'uomo? verità divine o falsità umane?
Se uno anziché seminare la buona Parola di Dio, semina l'erba cattiva della zizzania, mai potrà far germogliare nei cuori il regno di Dio.  Siamo convinti che il bene dell'umanità dipende soprattutto dalla qualità della nostra semina?

Mariella: Aggiungo due brevi considerazioni la prima di Papa Benedetto XVI  

"Regno di Dio" significa "signoria di Dio" e ciò significa che la sua volontà è assunta come criterio. E' questa volontà che crea giustizia... Ecco perché Salomone chiede a Dio "un cuore docile" per essere in grado di rendere giustizia e distinguere il bene dal male; "un cuore docile" proprio perché sia Dio e non lui a regnare, perché, se non si è in perfetta sintonia con Dio, non si può esercitare la vera giustizia......

La seconda è una mia riflessione:
“Regno di Dio” è l’insieme di persone che in pensieri ed azioni fanno la volontà di Dio e questa volontà si concretizza con tutto ciò che è il bene: amore, giustizia, pace, solidarietà, comunione, libertà.  Purtroppo la nostra società sceglie più facilmente tutto l’opposto, dilaga il male, la violenza, le ingiustizie, l’odio. Il Regno di Dio sembra sempre più allontanarsi, per cedere il passo alle tenebre.
Ma Dio è capace di compiere cose che nemmeno possiamo immaginare se solo lo lasciamo fare e lo invochiamo con speranza cristiana. “Venga il tuo Regno Signore!”
Questo brano c’invita a riflettere sul seme che è stato seminato in noi col Battesimo e alimentato con la Parola e con i Sacramenti successivamente.  Impegniamoci dunque a farlo crescere, giorno per giorno, avanzando nella consapevolezza di essere figli di Dio, cittadini del suo Regno, testimoni autentici e credibili della sua Verità! 

 Enzo: A conclusione di questo commento diamo uno sguardo al nostro mondo nel quale siamo chiamati a instaurare il Regno di Dio in mezzo a opposizioni e insuccessi senza fuggire dalla storia, vedendo in tutto la promessa divina: viviamo di speranza.
Questi commenti ci portano ad essere seminatori di speranza, predicatori del Regno di Dio,  persone umili, testimoni del Maestro.

Seminatori di speranza
(don Mario Giovanni Petruzzelli)

Ogni giorno tristi notizie
scuotono le strade del mondo.
Ogni persona che incontriamo
ha sempre da raccontarci una lacrima sofferta.
Siamo tutti con gli occhi rivolti verso un'alba serena,
che però tarda a spuntare.


A noi, tuoi figli, o Signore,
hai affidato il compito di seminare speranza
dove c'è disperazione,
poiché la tua grazia ha posto in noi
il seme fecondo che genera il mondo redento e salvato.

Aiutaci, Signore, ad essere ogni giorno
non diffusori di lacrimogeni,
ma banditori della Buona Novella che, nonostante tutto,
la storia sfocia in un giardino di salvezza,
perché è tenuta saldamente nella tue mani.

 

giovedì 4 giugno 2015

È il tuo Corpo, Gesù, che ci fa Chiesa, fratelli sulle strade della vita.

Come discepoli accettiamo l'invito  a nutrirci con il suo corpo ed il suo sangue.


Domenica 7 giugno 2015: Anno B, Festa del Corpus Domini



Dal vangelo secondo Marco 14,12-16;22-26

Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli
gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la
Pasqua?».
Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi
verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo.
Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”.
Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi».
I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.

E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo».
Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti.
E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

Parola del Signore!

Enzo:  Mi ha colpito, leggendo questo brano, la semplicità del racconto: attori sono i discepoli, Gesù, un uomo con la brocca, il padrone di casa dove Gesù celebrerà la sua Pasqua. Possiamo dividere quanto avviene in due parti: preparativi per la cena pasquale e istituzione dell’Eucaristia. Nonostante la semplicità del racconto cerchiamo di conoscere passo dopo passo lo svolgimento di questo grandissimo regalo di  Gesù.

I discepoli e Gesù si accingono a celebrare la festa ebraica della Pasqua. I primi, si preoccupano del posto dove preparare “perché tu possa mangiare la Pasqua”, chiedono a Gesù che sembra dal racconto aver già preso l’iniziativa. Mangiare la Pasqua, non è riferito, nelle intenzioni dell’evangelista alla pasqua ebraica, ma mostrare che Gesù stava per celebrare la sua PASQUA: chiaro il riferimento dei discepoli: : “Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?”, leggiamo pure “la tua Pasqua”, quella nuova che guarda all’eternità. Era il primo giorno degli Azzimi.

Un uomo con la brocca indicherà ai discepoli il luogo dove consumare la festa. Anche questo è singolare, un segno caratteristico: i maschi usavano portare l’acqua in otri, le donne in brocche. Un segno di riconoscimento infallibile.

Il padrone di casa, forse un amico o un discepolo di Gesù, forse proprietario della casa, sente e accoglie la richiesta dei discepoli: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”.
“Maestro” fu un’indicazione sufficiente per il padrone di casa.

Una grande sala, arredata e già pronta: grandiosa e lussuosa potremmo dire. In quella sala stava per celebrarsi una grandissimo evento: in contrasto con la prima pasqua e l’usanza giudaica primitiva quando l’agnello veniva mangiato in fretta, stando in piedi (Es 12,4). Possiamo dire che Gesù ha voluto fare le cose alla grande e con calma.
I discepoli prepararono tutto l’occorrente per celebrare la solita pasqua ebraica: agnello, erbe amare, salsa, pane non lievitato, vino.

Prosegue il racconto con Gesù e i discepoli già a tavola: non perde tempo l’evangelista Marco che ci rappresenta una formulazione liturgica di un avvenimento che ebbe luogo durante l’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli. Nello sfondo della pasqua giudaica prepara il grande evento Marco riferendo ciò che fece e disse Gesù nell’interesse della fede e del culto cristiani di allora e di oggi.

Mentre mangiavano prese il pane: la cena iniziava con un antipasto; all’inizio del piatto principale  Gesù, capofamiglia, disse una preghiera di ringraziamento sopra i pani non lievitati, prima che venisse consumato l’agnello. Marco non sta a descrivere tutto il rito della pasqua ebraica, ma va subito al punto centrale e nuovo, quello che Gesù stava per compiere.

 «Prendete, questo è il mio corpo».  Gesù con queste cinque parole spiegò il senso del pane che stava per distribuire, non più pane ma il suo corpo che egli donerà con la sua passione e morte per la salvezza dell’uomo, cibo per il nostro cammino. “Questo è il mio corpo” significa “questo sono io stesso”.

"Poi prese il calice": probabilmente è il terzo calice della cena pasquale, "il calice della benedizione" (1 Cor. 10,16), che seguiva il piatto principale e precedeva il canto dell'Hallel.

“Questo è il mio sangue”: Gesù realizza per primo la trasformazione del vino nel suo sangue, l’offerta di se stesso. Il sangue nella concezione biblica designa la vita stessa di una persona.

"Il sangue dell'Alleanza": Gesù interpreta il calice di vino in termini di "sangue dell'Alleanza", una allusione al sacrificio che sigillò l'Alleanza del Sinai quale compimento delle alleanze sancite con Noè, Abramo, Mosè. Non più sangue delle vittime sacrificali. La nuova alleanza è ratificata con il sangue di Gesù.

"Versato per molti": il termine "molti" va inteso nel senso semitico come indicazione di un grande numero senza limite. Il sangue sparso di Cristo introdurrà la massa del genere umano nell'alleanza con Dio. L'eucarestia, pertanto, interpretata come pane e vino (cibo), è chiaramente la fonte di una nuova vita per gli uomini.

"Fino al giorno in cui lo berrò nuovo...": la dimensione escatologica dell'eucarestia è implicita nella sua relazione con il regno nel quale Cristo, il Messia, il Redentore e i suoi discepoli parteciperanno assieme al banchetto messianico. Ciò avverrà in un modo nuovo e definitivo; l'eucarestia acquista pertanto una dimensione di speranza per il Regno eterno dei cieli.

Eucaristia, sacramento dell’amore è al centro della Chiesa voluta da Gesù. Sacramento di vita per ogni credente, alimento spirituale. Senza l’eucaristia non c’è chiesa, è il corpo, è il sangue di Gesù che ci uniscono in comunione con Lui dandoci la dimensione escatologica del Regno dei cieli.

Mariella: "Il primo giorno degli Azzimi, quando immolavano la Pasqua...": il contesto è quello della Pasqua, che ricorda il passaggio del popolo di Dio dalla schiavitù alla libertà, dell'immolazione dell'agnello, della cena pasquale. In questo ricordo però, tutto ciò che Gesù compie è nuovo: nuova è l’umanità che trascende i legami di sangue, liberata non più dalla partecipazione a riti, ma per la comunione reale al dono di Amore che da Lui passa ai discepoli.  I gesti di Gesù sono presentati in modo estremamente sobrio. 
La premessa è il contesto conviviale nel quale egli "prese il pane e recitò la benedizione": dunque tutto è dono che viene dal Padre, un dono nel segno della Trinità che abbiamo celebrato la scorsa domenica, unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; un dono che alimenta in chi lo riceve il senso di appartenenza, di comunione e di vita.
 "Lo spezzò, lo diede loro e disse...": con la frazione del pane Gesù permette che questo dono , raggiunga tutti i credenti e possa creare l'unità di tutti i cristiani con Dio e fra di loro. E mentre lo dona Egli pronuncia una frase inattesa: "Prendete, questo è il mio corpo", ossia chiede ai discepoli di accoglierlo con un atto personale, per questo usa un verbo imperativo (prendete). Gesù fa in modo che il suo corpo diventi pane che nutre ogni singolo vivente.  Questo corpo che altri vogliono portare alla morte, Gesù lo dona come pane di vita per nutrire coloro che seguono la sua Parola e si affidano a Lui.
Come il corpo di Gesù è il pane spezzato, donato, mangiato, per la vita nuova, così il suo sangue è vino condiviso, perché scorra nelle vene dell'uomo la forza nuova che è l'Amore di Dio, che è la gioia, la libertà, la pace.
Ai suoi discepoli, tristi, angosciati, sempre ripiegati su di sé, Gesù dona il suo corpo, dona il suo sangue, dona tutto di sé, perché essi vivano del suo dono nell’assoluta gratuità dell’amore, che non si risparmia, che si dona fino alla morte ed alla morte in croce.
La croce di Gesù, mentre agli occhi del mondo è un fallimento, una sconfitta, in realtà è una vittoria, grazie al trionfo di un Amore che non ha fine, che non trova limiti né di spazio, né di tempo, né di persona. Vittoria della vita sulla morte, vittoria del bene sul male, vittoria del giusto sull’ingiusto.
Gesù non ci lascia soli, non ci lascia in balia del male o della morte, ci fa il dono immenso di sé nell’Eucarestia, che si rinnova ad ogni celebrazione eucaristica e che rende concreta la realizzazione del patto di Amore che lega Dio al suo popolo, rappresentato dai dodici Apostoli, ma i cui confini si allargano alla "moltitudine", ossia all'umanità intera, compresi tutti noi e quelli che verranno.
Ai suoi discepoli chiede soltanto di accettare l’invito a nutrirsi con il suo corpo ed il suo sangue, lasciarsi trasformare in Lui, per poterLo far vivere ancora in mezzo all’umanità.

Ripetiamo queste strofe prese dall’inno:

 IL PANE DEL CAMMINO:


È il tuo pane,
 il tuo corpo Gesù, che ci dà forza
e rende più sicuro il nostro passo.
Se il vigore nel cammino si svilisce,
la tua mano dona lieta la speranza.



È il vino, il tuo sangue, Gesù, che ci disseta
e sveglia in noi l'ardore di seguirti. 
Se la gioia cede il passo alla stanchezza, 
la tua voce fa rinascere freschezza.


  
È il tuo Corpo, Gesù, che ci fa Chiesa,
fratelli sulle strade della vita.
Se il rancore toglie luce all’amicizia, 
dal tuo cuore nasce giovane il perdono



Se vuoi e puoi, leggi anche questo commento di Fra  Mariosvaldo Florentino, cappuccino.


La Chiesa c'invita a celebrare in questa domenica la festa del Corpus Domini. In alcuni paesi questa festa si celebra il giovedì, in altri si celebra la domenica. Ugualmente, vogliamo riflettere oggi su questo gran mistero che il Signore ci ha lasciato: l'Eucaristia.

Questa festa vuole aiutarci a crescere nel mistero della comunione con Dio, principalmente attraverso questo sacramento che è la fonte e l’apice di tutta la nostra vita cristiana.
Quella che deve essere la priorità è aiutare le comunità e le persone a scoprire la forza, la grazia e la ricchezza della celebrazione eucaristica (principalmente di quella domenicale, giorno in cui celebriamo la vittoria di Cristo) e della sua presenza continua in mezzo a noi.

Più di quaranta anni fa il Concilio Vaticano II c'insegnava che la partecipazione dei cristiani alla liturgia doveva essere attiva, cosciente e fruttuosa. Cioè, dobbiamo partecipare alla Messa e non solo assisterla, quindi, dobbiamo conoscere i riti, partecipare ai canti, dare delle risposte, essere coinvolti nella celebrazione. Credo che questo molto di ciò si faccia già. La Messa ha  cominciato ad essere celebrata nelle nostre lingue moderne e in molte comunità le persone smettono di essere semplicemente passive e partecipano attivamente. Nonostante ciò, abbiamo ancora molto da migliorare.

È molto bello leggere come in origine per i primi cristiani era tanto importante celebrare l'Eucaristia. Per esempio l'espressione: "Sine domenica non possumus!" che può essere tradotto in due modi: "Senza la domenica non possiamo vivere!" oppure "Senza la cena del Signore non possiamo vivere". Questa frase fu pronunciata da alcuni cristiani dei primi secoli che furono carcerati quando uscivano da una messa  e le autorità pagane esigevano loro che abbandonassero la fede cristiana e che rinunciassero di partecipare alla mensa, ma loro risposero che non avrebbero potuto vivere senza questo. E, così, questi nostri fratelli preferirono morire pur di non smettere di vivere.

Anche noi siamo invitati a scoprire la fonte della nostra fede, e anche la fonte della nostra vita. Che bello sarebbe se dalle nostre labbra potesse uscire questa frase: Senza la Messa non posso vivere! Senza consacrare la domenica la mia vita non ha senso!  Senza la comunione con Dio è inutile la mia esistenza!

Che bello sarebbe se noi avessimo Dio al primo posto nelle nostre vite; se nella domenica la cosa più importante per noi fosse il partecipare alla Messa con la comunità e dopo dedicarci alla famiglia, alla ricreazione e al riposo, senza dovere inventare scuse o dire di non aver avuto tempo o di essere molto stanco o che avevo altre cose da fare.

Senza Dio non siamo niente! Senza lui non viviamo, solamente vaghiamo per il mondo.
Dio si offre per stare in comunione con noi, ma la comunione tra due persone non avviene quando è uno solo a volerla.
La comunione esige volontà ed impegno di ambedue. Gesù si offre come pane vivo disceso dal cielo, capace di trasformarci interiormente e darci una vita senza limiti.

Ma per "mangiare" di questo pane, per stare in comunione con lui, io devo integrarmi nel suo corpo, cioè, nella Chiesa. Perché è solo attraverso di essa, quando celebra l'Eucaristia, che io posso alimentarmi di questo pane vivo che ci dà la vita eterna.

Caro fratello, cara sorella che Dio ci dia la grazia di fondare le nostre vite, sia come padri o madri di famiglia, come giovani o anziani, come sacerdoti o laici, nell'Eucaristia.
Che essa sia la fonte del nostro amore, della nostra pazienza, della nostra carità e della nostra speranza e verso di lei concorrano tutte le nostre forze, tutto il nostro impegno e tutta la nostra energia.
Perché così in noi avrà già inizio la vita eterna.

Fra  Mariosvaldo Florentino, cappuccino.
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